Quando non c’erano videogames

Pro Evolution Soccer o Fifa? Questo è il dilemma per molti dei nostri lettori, tutti quelli a cui piacciono il calcio e i videogames.

A loro voglio raccontare come i ragazzi degli anni ’60, ’70 e ’80, senza il supporto della tecnologia, hanno emulato le gesta dei loro campioni preferiti, indossato la maglia della loro squadra del cuore, disputato campionati e coppe, il tutto a colpi di dito e di immaginazione, grazie al Subbuteo, il gioco di calcio più bello di tutti i tempi.

La prima volta che ho visto il Subbuteo è stato a casa di un mio lontano cugino, Rosario, più grande di me di qualche anno. In effetti, ho solo potuto vedere, senza toccare, la tavola di truciolato su cui era adagiato il bel tappeto verde che riproduceva il campo di gioco, fissato con le puntine da disegno, le porte con le reti rosse e blu, i portieri con la lunga stecca per comandarne i movimenti, le miniature dei calciatori delle due squadre scelte nell’occasione tra le numerose disponibili: troppo piccolo io, e troppo prezioso il Subbuteo perché potessi giocarci.

Già, ma come si gioca a Subbuteo? Con la punta delle dita – di solito l‘indice, per qualcuno anche il medio, vietatissimo invece il pollice – si colpiscono le miniature dei calciatori, 3 centimetri di plastica, compresa la base semisferica. Ogni miniatura può toccare la palla al massimo tre volte, dopo di che ne subentra un’altra, fino a che la palla non viene calciata verso la rete o la sfera viene mancata: a quel punto il possesso palla è perso, e subentra nel gioco l’avversario. Il tiro in porta è consentito solo dopo che la palla ha superato una linea orizzontale posta più o meno a metà strada tra il centrocampo e il limite dell’area.

Queste le regole di base, ma c’è anche un regolamento ufficiale, cui però ciascun giocatore di Subbuteo ha – consapevolmente o meno – apportato delle varianti locali: la mossa difensiva per ciascun tocco dell’attaccante, il divieto di muovere il portiere prima che sia partito il tiro, l’obbligo prima di tirare in porta di avvertire l’avversario e di attendere che il portiere sia in posizione, fino al calcio di rigore decretato quando la palla avesse toccato la stecca del portiere, una regola probabilmente valevole solo tra me e mio fratello.

Venti minuti a tempo, nei pomeriggi privi di impegni, solo dieci negli altri casi, la scelta delle squadre da far scendere in campo, il telo adagiato sul famoso truciolato, ma al bisogno anche sul tavolo della cucina o in terra, attaccato con il nastro adesivo, con gran dolore per le ginocchia e con grave rischio per l’incolumità delle miniature, troppo spesso calpestate dai familiari di passaggio e poi incollate sommariamente con il Bostik o con l’Attak. In queste improvvisate medicazioni, alcune miniature ne risultavano sfigurate o mutilate, troppo inclinate in avanti o all’indietro, prive talvolta delle caviglie, le ginocchia direttamente adagiate sulla base. Proprio a queste figure, tuttavia, immediatamente riconoscibili, era più facile affezionarsi e più difficile separarsi.

La base semisferica, al cui interno è posto un tondino di metallo, consente dribbling, serpentine e tiri a pallonetto: si può tirare rasoterra, o a mezza altezza, si può colpire la palla di taglio, come nel biliardo, o disegnare parabole degne di Maradona o Platini, che scavalcano difesa e portiere, sicché si può segnare anche su calcio di punizione.

Questo il Subbuteo, con l’accento corretto sulla seconda “u”, che ancora conservo gelosamente insieme a una ridotta porzione dell’originaria collezione di squadre del campionato italiano, di quello statunitense (!) e di nazionali. Alcune di queste squadre le ho dipinte da solo, di solito per rimediare alla perdita di troppe miniature, che mi costringeva a fondere in un’unica squadra i superstiti di due formazioni inizialmente distinte, alla sola condizione che le basi fossero dello stesso colore.

Ancora grazie all’inglese Peter Adolph, che nel lontano 1947 inventò il Subbuteo, gioco al quale – da ornitologo dilettante – diede il nome scientifico di un falco, ad Edilio Parodi, industriale genovese del giocattolo, che importò il calcio da tavolo in Italia, ad Andrea, a Franco, a Pippo, a Generoso, a Giorgio, a Giuseppe grande e Giuseppe piccolo, a Nicola, a Massimo, Luca, e a tutti coloro con i quali – anche in tempi non sospetti – ho (finora) giocato a Subbuteo.

 

Per approfondire

Nel web > http://www.subbuteo.org/show_1024.htm

In libreria > Daniel Tatarsky, Subbuteo. Storia illustrata della nostalgia, Edizioni ISBN